Quando la “ricchezza” dei Paesi occidentali continuava crescere e gli “standard di vita” a migliorare, i loro abitanti non erano comunque diventati più felici. Lo mostrano diverse rilevazioni fatte nei Paesi “ricchi” (quelli in cui il redito medio pro capite supera i 20.000 dollari; il discorso cambia naturalmente nei Paesi poveri, dove le persone vivono in stato d'indigenza). L’aumento del PIL registrato negli ultimi quarant’anni non è stato accompagnato da un aumento della felicità.
I fattori chiave che spiegano la differenza dei gradi di felicità percepita di un Paese rispetto a un altro, nonché la differenza nei rispettivi tassi di suicidio, li ha identificati con dovizia di dati empirici l’economista della London School of Economics e direttore del Centre for Economic Performance Richard Layard, e tra questi il reddito non figura: contano piuttosto la percentuale di persone che dicono che ci si può fidare dei propri simili, la percentuale di persone affiliate a organizzazioni sociali, il tasso di disoccupazione, il tasso di divorzio, la qualità del governo e la fede religiosa.
Ora che il PIL e i redditi non crescono più sembra alcuni leader politici, David Cameron in testa, abbiano cominciato a prendere sul serio l’”economia della felicità”.
Il “National Well-Being Office”, costato 2 milioni di sterline, è solo un altro espediente politico per aumentare le possibilità di essere rieletti in un'epoca in cui l’economia dà poche soddisfazioni o un autentico tentativo di disegnare istituzioni a “misura della felicità” dei cittadini?